Introduzione.
Negli anni Sessanta, la massiccia diffusione dei
mezzi di comunicazione di massa ha portato un certo tipo di cultura all’attenzione
curiosa, entusiastica o scandalizzata, dei fruitori o degli autori della
cultura tradizionale, sollevando polemiche accese. I comics escono finalmente
dal ghetto culturale in cui erano stati relegati, ed aumenta l’interesse
del pubblico adulto per questo tipo di letteratura popolare. I fumetti
diventano così di moda, diventano argomento di studio e di discussione.
Fanno la loro comparsa diversi saggi relativi a tale argomento e nascono
riviste quali Linus, Eureka, Sgt. Kirk dove, a fianco delle strisce e delle
tavole a fumetti, vengono pubblicate note storico-critiche, presentazioni
di autori e personaggi, interviste e dibattiti. Umberto Eco ha individuato
due opposti prototipi dell’atteggiamento delle persone verso la cultura
di massa: gli apocalittici e gli integrati. Il termine “apocalittico” sta
ad indicare l’atteggiamento di chi,
considerando la cultura come
un fatto aristocratico, come la gelosa coltivazione, assidua e solitaria,
di una interiorità che si affina e si oppone alla volgarità
della folla, non può che ritenere un controsenso mostruoso il solo
pensiero di una cultura condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti
a tutti, e elaborata sulla misura di tutti; la cultura di massa per lui
è l’anticultura.
Non solo, ma poiché nasce nel momento in cui
la presenza delle masse nella società diventa un fenomeno pregnante,
la cultura di massa non segna un’aberrazione transitoria e limitata, ma
diventa il segno di una caduta irrecuperabile di fronte alla quale l’uomo
di cultura non può che dare un’estrema testimonianza in termini
di “Apocalisse”.
Al contrario l’integrato ritiene ottimisticamente
che, poiché i mass media mettono ormai i beni culturali a disposizione
di tutti, rendendo amabile e leggera la fruizione di nozioni e informazioni,
stiamo vivendo in un’epoca di ampliamento dell’area culturale, in cui finalmente
si attua ad ampio livello, la diffusione di un’arte e di una cultura popolare.
Ecco allora che, nell’autunno del 1962, in un’Italia
spensierata, ancora ignara del Sessantotto, della rivoluzione sessuale
e del terrorismo, irrompe un elemento assolutamente nuovo e destabilizzante.
Siamo nel pieno del boom economico italiano, calati nelle sue giovani e
scintillanti mitologie piccolo-borghesi; l’economia nazionale ha pienamente
assunto, almeno in apparenza, i caratteri del modello di sviluppo industriale.
Le città ridisegnano i propri spazi e ruoli sociali. Le utilitarie
cominciano ad intasare le vie del centro; il televisore, che negli anni
Cinquanta funzionava da contenitore spettacolare principalmente nei bar
e nelle sale cinematografiche, lascia i luoghi pubblici per trasferirsi
nelle case, anche nelle più lontane baracche di periferia. Nuovi
modelli di comportamento si propongono ai giovani attraverso la spettacolarizzazione
che il cinema americano opera sui grandi fenomeni di attrazione, come il
divismo, e sul disagio dell’universo giovanile. Il giovane Holden di Jerome
David Salinger, personaggio simbolo della solitudine e del disadattamento
delle nuove generazioni, si incarna e drammatizza nell’ambiguo fascino
di James Dean.
Questo elemento destabilizzante, strisciante, sottilmente
minaccioso, si insinua in un panorama apparentemente dominato dalla voglia
di produrre, di divertirsi, di dimostrare che, dopo i difficili decenni
del Dopoguerra, l’Italia ha risalito la china. Inoltre viene a ledere uno
dei pilastri della società italiana dei tempi, la famiglia. Il minaccioso
spiritello si incarna nel “fumetto nero”. Sussurra con sempre maggiore
insistenza che, dietro un’apparenza di perbenismo borghese, si annidano
vizi privati in grado di scardinare qualsiasi pubblica virtù. Diabolik,
capostipite di questo nuovo genere tutto italiano, personaggio che assomiglia
a Sean Connery e rimanda ai grandi generi letterari del male, diviene in
capo a due anni una variabile inquietante nel panorama del fumetto.
L’accostamento con le sobrie pubblicazioni cattoliche
(Il Giornalino, Vitt), distribuite anche nelle scuole e nelle parrocchie,
è lacerante. Si scatena un dibattito dai toni aspramente censori,
ma il fenomeno “nero” prolifera. Nascono in rapidissima successione altri
"eroi" dello stesso tipo, tra cui spiccano quelli ideati da due giovani
autori, il disegnatore bolognese Roberto Raviola e lo sceneggiatore milanese
Luciano Secchi, che si firmano Magnus & Bunker. Satanik e soprattutto
Kriminal, con l’opulenza dei loro riferimenti gotici e della grafica raffinata,
spingeranno i termini di questo nuovo genere verso i limiti dell’indicibile.
Il “fumetto nero” cambia le regole del gioco. Le
gabbie che fino ad allora avevano regolamentato grammatica e lessico del
medium saltano sotto la pressione di un pubblico che attraversa una fase
di profonda trasformazione dei modelli di comportamento, del linguaggio,
della mentalità. Diabolik e compagni apriranno la via al fumetto
erotico che, alla metà degli anni Settanta, si aprirà a sua
volta alle istanze della pornografia, ma anche ad un fumetto più
adulto, volto a praticare nuovi territori di intersezione con altri codici
espressivi.
Gli ingredienti narrativi fondamentali sono: violenza,
sesso, tecnica e ingegnosità, umorismo macabro. Si potrebbe dire
che nessuno degli elementi citati costituisca una novità: basti
ricordare il vecchio Flash Gordon. Eppure ognuno di essi si presenta sotto
una dimensione e un significato assolutamente nuovo.
La violenza è spesso praticata non da un
gangster qualsiasi, da un delinquente qualunque, ma da un uomo che è
l’incarnazione stessa del male e come tale non potrà mai essere
soppresso o annientato dai rappresentanti della legge, incarnazioni del
bene.
Si riflette così una visione manichea della
società, nettamente divisa in due blocchi: l’uno riservato al protagonista,
criminale geniale; l’altro, riservato alle figure di contorno, dove vige
la morale piccolo-borghese più tradizionale. I suoi avversari appartengono
ad un’umanità inferiore, odiosa, concepita secondo i più
vieti luoghi comuni: sono esseri meschini, vigliacchi e stupidi.
L’esercizio della forza, della violenza, non è
mai gratuito, pura esibizione da eroe tutto muscoli, o giustificato
dal servire fini o valori collettivi, ma è il frutto di un calcolo
preciso, di un piano ordinato e metodico che l’eroe compie alla luce di
uno scopo personale, individualistico. Rappresenta una patologica affermazione
di se stesso in un mondo che sempre più tende ad una altrettanto
patologica massificazione e livellazione degli individui.
Il sesso, poi, non è già la più
o meno pudica pruderie di Diana Palmesi o di Narda, ma è spesso
lo sfrontato scatenarsi dell’individualità femminile. Nel “fumetto
nero” la donna assume sempre più il ruolo di protagonista e sempre
meno quello di comprimaria, evidenziando così alcuni problemi principali
della società come appunto quello del sesso, dell’emancipazione
femminile e della famiglia, così strettamente legati fra loro.
Il “fumetto nero” non è quindi solo il frutto
di menti aberranti e confuse, ma è bensì uno dei tanti prodotti,
e neppure il peggiore, della società contemporanea. Certo non un
prodotto calcolato, piuttosto uno specchio dei tempi che accentua quelli
che sono gli aspetti più salienti. Le avventure di Diabolik e compagni
offrono una visione unilaterale, o perlomeno settoriale e per di più
ingrandita, della società dell’epoca, ma non si può tuttavia
nascondere che possano risultare un indice di rilevamento piuttosto interessante.
E nella società degli anni Sessanta si dilata
sia la violenza pubblica, originata dai conflitti di potere fra gruppi,
sia quella privata, originata dal cambiamento delle strutture familiari
e dal rapporto genitori-figli.
In questo quadro l’aggressività
latente nell’individuo trova nell’evoluzione del tessuto sociale una forma
di autorizzazione a scatenarsi senza necessità di quelle giustificazioni
(guerre, ideali patriottici, difesa degli oppressi, motivi d’onore, sicurezza
pubblica) che in passato ne regolavano l’impiego mettendola, spesso farisaicamente,
al servizio della collettività.
A livello di rapporti familiari, il progressivo indebolimento
della figura paterna ha provocato uno sfaldamento delle strutture della
famiglia tradizionale improntata alla figura del padre, incentrata nell’autorità
patriarcale della legge, del codice d’onore, della giustizia, nei valori
della proprietà privata, della gerarchia, della capacità
personale e della produttività, del rispetto del potere costitutivo,
con conseguente attenuazione del senso di colpa derivante dalla trasgressione
dei sopraindicati valori. In questo quadro lo scatenarsi dell’aggressività
tende a non essere più vissuto come riprovevole a livello individuale.
Si è così venuto idealizzando un
modello di comportamento che trova nell’eroe “nero” la sua apoteosi: un
individuo violento, eccezionalmente intelligente ed ingegnoso, dai tratti
simpatici, individualista, spregiatore di ogni norma e convenzione che
non sia l’espressione della volontà megalomane per il trionfo della
quale non conosce ostacoli, nemmeno il delitto. E, per dar risalto al nuovo
eroe “nero”, eccogli contrapposto un antieroe, in genere un poliziotto,
che simbolizza il resto dell’umanità, patetico ed eternamente perdente.
L’elemento di novità consiste nell’aver
trasformato l’eroe negativo tradizionale in eroe positivo. Un tale capovolgimento
era stato operato da tempo nell’ambito della letteratura popolare che,
seguendo una lunga tradizione che va da Robin Hood al Conte di Montecristo,
ad Arsenio Lupin, a Rocambole, a Fantomas, aveva costruito l’ideale del
fuorilegge romantico, del giustiziere, del ladro gentiluomo, che si batte
contro una società ingiusta. Ma nella dinamica dell’eroe “nero”
subentra un elemento nuovo, seppur parzialmente affiorante in alcuni eroi
romantici fin de siècle: l’uso indiscriminato della violenza, di
un’aggressività gratuita con risvolti sadici. Il nuovo eroe è
puramente un genio del male, privo nel suo agire della pur minima motivazione
sociale. Non gode, infatti, dell’aiuto, della stima e dell’ammirazione
dei suoi concittadini. Disdegna di unirsi ai delinquenti comuni che considera
inferiori; vive isolato nella sua tana-fortezza al più in compagnia
di una donna complice. Solo contro tutti, solo contro il mondo in una perenne
sfida a riprova della propria superiorità o addirittura del proprio
vero essere.
Due circostanze distinguono il nuovo eroe “nero”.
La prima è il carattere sostanzialmente gratuito di questo scatenamento
di istinti aggressivi: un’orgia di brutalità, efferatezze, frenesie
erotico-mortuarie. Il desiderio di accumulare ricchezze incommensurabili
non basta a motivarlo, la vera ragione è un’antisocialità
fine a se stessa. La seconda è la doppia identità spesso
attribuita al protagonista, che cela la sua natura di fuorilegge senza
scrupoli sotto le spoglie di un bravo cittadino, tranquillo e danaroso.
Proprio l’agiato inserimento
dell’io nella civiltà dei consumi opulenti eccita nascostamente
l’erompere di un delirio di onnipotenza volto al solo fine della gratificazione
delittuosa di sé. Come e più del fumetto passionale, quello
giallo-nero è insomma il regno di ossessioni mentali incontenibili.
Questo trionfo dell’individualismo aggressivo, l’assenza
di motivazioni sociali e gli sfondi delle storie che tratteggiano una società
senza tensioni sociali e politiche, dominata dalla legge della competitività
e del benessere hanno attirato sui “fumetti neri” l’accusa di essere reazionari
e strumento di pedagogia della violenza. Lo stesso uso della violenza non
è dilettantistico ma frutto di piani preordinati per raggiungere
fini precisi attraverso l’impiego delle tecniche più avanzate. La
posizione della donna è spesso in condizione subordinata e servile,
fatta eccezione per quei fumetti che hanno delle protagoniste femminili,
dove si tenta attraverso il sesso e la violenza di esaltare il nuovo ruolo
che la donna voleva assumere nella società dell’epoca. È
indubbio che la mancanza di impegno critico e di una precisa posizione
ideologica siano fattori favorevoli al conservatorismo sociale, ma il “fumetto
nero” si presenta soprattutto come uno dei tanti prodotti conformistici
e “corrisponde a certe dimensioni della società moderna e ne segue
inesorabilmente le regole consumistiche come ogni altro prodotto destinato
alle masse, e per conseguenza è il più possibile asettico
e indifferenziato criticamente”.
E ancora Spinazzola, rifacendosi alla società
americana, commenta:
Se il mondo moderno tende
universalmente a sostituire alla cultura popolare la cultura di massa,
rivolta a un pubblico di più in più indifferenziato, di cui
partecipano anche le classi superiori, il capitalismo monopolistico ha
fatto di tale cultura un’industria rigidamente asservita alla legge del
profitto e rigorosamente adeguata a ideologie conservatrici.
Gli eroi “neri” nostrani hanno ereditato maschere e
calzamaglie dai superman americani ma, a differenza di loro, sono decisamente
cattivi; si permettono licenze e intemperanze sessuali e dimostrano che
il delitto paga così bene da diventare una fonte di ricchezza. Ma
i criminali in tuta, belli, agili e intelligenti, dando scacco matto alla
Legge, non si ribellano al Sistema, anzi si accaniscono contro i più
deboli, che divengono oggetto di violenza, il bersaglio su cui sfogare
i propri istinti fino alle tendenze sadiche. L’avventura dell’eroe “nero”
coincide con la ricerca esasperata del denaro e del potere come valori
sociali ed è vissuta in una specie di extra-libertà, una
libertà antropologica che non conosce norme e che quindi affascina
chi vive la vita quotidiana col suo bagaglio di istinti repressi, desideri
censurati, paure sopite. L’uomo civilizzato, burocratizzato, sottoposto
a mille divieti e regolamenti, si libera nell’immagine di chi osa obbedire
solo alla propria volontà. Dietro la maschera dell’eroe “nero”,
il lettore degli anni Sessanta si libera dalla situazione di piatto conformismo
per agire senza paura di essere giudicato.
I cittadini dell’età
borghese (l’espressione è di Musil) vivono una vita la cui larghezza
è ridotta alla fascia centrale… Tutto il resto al di sopra e al
di sotto, è spettacolo e sogno: la grande politica, l’attività
creatrice, la violenza, la libertà, il crimine, l’eccesso. E la
violenza aggressiva delle fasce marginali sembra accrescersi mentre si
accresce, nella fascia centrale, la sicurezza sociale, lo stato provvidenziale,
il sereno comfort, il benessere.
Come accade ad ogni processo, anche il “fumetto nero”,
nella sua fase terminale, ha subito un’evoluzione – in questo caso un’involuzione
– concentrandosi completamente sulla tematica sessuale. Questa focalizzazione,
se ha contribuito nel breve periodo al suo successo, ne ha contemporaneamente
sancito la fine. Il livello, sia della grafica, sia delle sceneggiature,
ha avuto un tracollo irreversibile e l’intrigante erotismo di Magnus è
degenerato in una pecoreccia esposizione gratuita di genitali maschili
e femminili. Col tempo questo gusto per una pornografia di serie B si è
unito spesso a soggetti spiccatamente razzisti, esaltatori di una violenza
purificatrice portatrice di valori fascistoidi.
L’ispirazione a questo mio lavoro è scaturita
dalla lettura dell’articolo di Umberto Eco, “Fascio e fumetto (Eja, Eja!
Gulp!)”, pubblicato su L’Espresso nel marzo del 1971. Qui il discorso si
concentra proprio sull’analisi di questo ultimo livello: la degenerazione
del fumetto, e le conseguenti infiltrazioni reazionarie tra i comics italiani
della fine degli anni Sessanta. Le radici di questo fenomeno, secondo Eco,
vanno cercate a monte, in Diabolik e compagni.
I primi eroi “neri” hanno infatti rotto completamente
gli schemi del passato e aperto una nuova strada al fumetto italiano che
è stata percorsa, probabilmente bruciandone le tappe, da centinaia
di autori infervorati anche dal clima generale di quegli anni, intriso
di spinte innovative e rivoluzionarie. In una situazione del genere le
deviazioni dalla norma sono quasi una regola, ed il fumetto non ne è
stato esente.
Il successo di Kriminal e
Satanik ha causato un’inversione di tendenza nel fumetto. Fino a quel momento
il fumetto era fatto sempre da gente bella, brava e buona. La nascita del
“fumetto nero” è stata un'esigenza di andare contro. C'erano già
nell'aria dei mutamenti, non dimentichiamo quello che è successo
al di fuori: il fumetto non è un'isola felice, fa parte della cultura
generale. C'era già nell'aria quello che poi è stato chiamato
il "maggio francese": desiderio di rivoltarsi e di cambiare qualcosa, un
atteggiamento, una voglia di vedere con un'ottica diversa il fumetto, un
po' più realista .
Il mio compito è stato quindi quello di risalire
alle origini del problema, cercando le cause che hanno portato a questa
degenerazione. Ho scoperto in questo modo che le conclusioni tratte da
Eco erano troppo semplicistiche e affrettate.
La storia del “fumetto nero” è alquanto
sfaccettata e ricca di contraddizioni. Sicuramente questo nuovo genere,
nel suo complesso, ha avuto più meriti che colpe. È stato
segnato da tristi e riprovevoli pagine di repressione e maccartismo che
testimoniano la sua azione rinnovatrice. In un vero e proprio clima di
caccia alle streghe, la stampa da una parte e la magistratura dall’altra
hanno operato con tutti i mezzi per bloccare o, quantomeno, tamponare il
dilagare di queste pubblicazioni, ritenute evidentemente troppo sovversive.
Ma i sequestri e i processi non hanno fatto altro che pubblicizzare e diffondere
maggiormente la curiosità e l’interesse verso i nuovi eroi, raggiungendo
l’effetto opposto a quello desiderato.
Nella ricerca bibliografica che riguarda i fumetti,
non ho visionato tutto il materiale pubblicato nel periodo preso in esame,
a causa della sua vastità e dozzinalità, ma ho ristretto
il campo d’azione ad alcuni titoli, tra i più esemplificativi.
Nella prima parte della tesi ho concentrato la
mia indagine su Diabolik, l’iniziatore, colui che per primo ha infuso una
ventata riformatrice, e Kriminal e Satanik che, in aggiunta all’eroe delle
sorelle Giussani, muovendosi nella stessa direzione, hanno contribuito
a migliorare la grafica e ad arricchire l’intensità delle storie.
Chi si è distaccato da questa linea sono
stati i primi fumetti sexy, tra i quali il più apprezzabile e il
meno volgare – forse perché il primo – ha avuto come protagonista
l’intraprendente Isabella. Dopo aver fatto un excursus in questo mondo
di donnine seviziate e seviziatrici, mi sono spostato verso il punto da
cui era partito questo lavoro: il fumetto neofascista. I due maggiori esponenti
sono senza dubbio Goldrake, per quanto riguarda il suo violento razzismo,
ed Hessa, per i suoi fin troppo espliciti riferimenti a fascismo, nazismo
e movimenti neofascisti, quali Ordine Nuovo, attivi in Italia in quegli
anni.
Nella postfazione, che conclude la tesi, sono tornato
ai giorni nostri riallacciandomi all’episodio di un fumetto contemporaneo
che, appartenendo anch’esso al genere “nero”, chiaramente rielaborato ed
adattato, ha subito lo stesso iter di accuse, sequestri e processi che
ha contraddistinto la vita editoriale di Kriminal, Sadik e degli altri
“nerissimi”. Trent’anni più tardi poco è cambiato in Italia:
ogni qualvolta qualcuno vuole distaccarsi dalla corrente tradizionale e
sicura, e cercare di sperimentare nuove strade, le forze che vigilano sulla
società e sulla morale, lo riportano volente o nolente all’ordine.
Per concludere, resta comunque il fatto che il
“fumetto nero”, soprattutto quello delle origini, ha fornito un quadro
aderente alla realtà sociale dell’epoca, meno ipocrita e meno cieco
delle pubblicazioni precedenti. E i danni che può recare l’immoralismo
sadico non sono certo superiori a quelli del quietismo paternalistico:
la bestemmia è sempre meglio dell’indifferenza, e l’insulto alla
società implica una presa di coscienza dei valori sociali.
Si capisce quindi che la magistratura sia intervenuta
in difesa dell’ordine costituito. Ma non è un paradosso sostenere
che la persecuzione del “fumetto nero” sarebbe stata apprezzabile solo
in rispondenza ad un’azione repressiva analoga, e più dura, contro
il “fumetto rosa”, colpevole di diseducare ancor peggio il cittadino alle
responsabilità del vivere civile.
Può darsi che, sotto
il segno del delitto e del sesso goduto apertamente e nelle forme più
sadiche, i lettori di una volta si sentano più soddisfatti che non
tra vicende ipocrite, dolciastre, piene di falsi problemi, di personaggi
patetici e miserevoli e dei più ridicoli anacronismi. Può
anche darsi che “Cuori infranti” e “Kriminal”, “Anime nella bufera” e “Satanik”
siano due maschere dello stesso volto.
Un ringraziamento
particolare va a Michele Ginevra, coordinatore del Centro Fumetto "Andrea
Pazienza" di Cremona, unica biblioteca esistente in Italia completamente
dedicata al fumetto, per la sua preziosa e indispensabile collaborazione
nella ricerca bibliografica.