Un articolo di Luigi Ferrajoli

da "il cerchio quadrato n.39", inserto de "il manifesto" di domenica 24 luglio 1994

A tutela del reo.

La legge del più debole contro la violenza del più forte.

Perché proibire, perché punire.

Il paradigma del "diritto penale minimo"

nella storia della lunga lotta contro la vendetta

Il diritto penale nasce come negazione della vendetta, non in continuità ma in discontinuità e conflitto con essa; e si giustifica non già con il fine di assicurarla, ma con quello di impedirla. E' ben vero che la pena, storicamente, sostituisce la vendetta privata. Ma questa sostituzione non è né spiegabile storicamente né tanto meno giustificabile assiologicamente con il fine di meglio soddisfare il desiderio di vendetta, ma al contrario con quello di porvi rimedio e di prevenirne le manifestazioni. In questo senso si può ben dire che la storia del diritto penale e della pena può essere letta come la storia di una lunga lotta contro la vendetta.

Il primo passo di questa storia avvenne quando la vendetta fu disciplinata come diritto-dovere privato, incombente sulla parte offesa e sul suo gruppo parentale secondo i princìpi della vendetta del sangue e la regola del taglione. Il secondo passo, ben più decisivo, avvenne allorché si produsse una dissociazione tra giudice e parte offesa, e la giustizia privata - i duelli, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, i regolamenti di conti - fu non solo lasciata senza tutela ma vietata. Il diritto penale nasce precisamente in questo momento: quando al rapporto bilaterale parte offesa/offensore si sostituisce un rapporto trilaterale, che vede in posizione terza un'autorità giudiziaria. E' per questo che ogni volta che un giudice è animato da sentimenti di vendetta, o di parte, oppure lo Stato lascia spazio alla giustizia sommaria dei privati, vuol dire che il diritto penale regredisce a stato selvaggio.

Ciò non significa, naturalmente, che lo scopo della prevenzione generale dei delitti non sia una finalità essenziale del diritto penale. Significa piuttosto che il diritto penale è finalizzato a una duplice funzione preventiva, l'una e l'altra negativa: alla prevenzione generale dei delitti e alla prevenzione generale delle pene private o arbitrarie o sproporzionate. La prima funzione indica il limite minimo, la seconda il limite massimo delle pene. Dei due scopi il secondo, di solito trascurato, è però il più importante: anche perché, mentre è dubbia l'idoneità del diritto penale a soddisfare efficacemente il primo - non potendosi disconoscere le complesse ragioni sociali, psicologiche e culturali dei delitti, non certo neutralizzabili con il solo timore delle pene - è invece assai più certa la sua idoneità, oltre che la sua necessità, a soddisfare il secondo, anche con pene modeste e poco più che simboliche.

Lo scopo generale del diritto penale, quale risulta da questa duplice qualità preventiva, consiste dunque nell'impedimento della ragion fattasi, ovverosia nella minimizzazione della violenza nella società. E' ragion fattasi il reato. E' ragion fattasi la vendetta. In ambedue i casi si dà un conflitto violento risolto dalla forza: dalla forza del reo nel primo caso, da quella della parte offesa nel secondo. E la forza è in entrambi i casi arbitraria e incontrollata: non solo, come è ovvio, nell'offesa, ma anche nella vendetta, che è per sua natura incerta, sproporzionata, sregolata, rivolta talora contro l'incolpevole. La legge penale è diretta a minimizzare questa duplice violenza, prevenendo mediante la sua parte proibitiva la ragione fattasi espressa dai delitti, e mediante la sua parte punitiva la ragione fattasi espressa dalle vendette o  da altre reazioni informali.

E' chiaro che, così inteso, lo scopo del diritto penale non è riducibile alla mera difesa sociale degli interessi costituiti contro la minaccia rappresentata dai delitti. Esso è bensì la protezione del debole contro il più forte: del debole offeso o minacciato dal reato come del debole offeso o minacciato dalle vendette; contro il più forte, che nel delitto è il delinquente e nella vendetta è la parte offesa o i soggetti con lei solidali. Precisamente - monopolizzando la forza, delimitandone i presupposti e le modalità e precludendone l'esercizio arbitrario da parte  di soggetti non autorizzati - la proibizione e la minaccia delle pene proteggono i rei contro le vendette o altre reazioni più severe. Sotto entrambi gli aspetti la legge penale è giustificata in quanto legge del più debole, finalizzata alla tutela dei suoi diritti contro la violenza arbitraria del più forte. E i diritti fondamentali sono precisamente i parametri che ne definiscono gli ambiti e i limiti siccome beni che non è giustificato offendere né con i delitti né con le punizioni.

Solo concependo in questo modo lo scopo del diritto penale è possibile formulare un'adeguata dottrina di giustificazione e insieme dei vincoli e dei limiti - e quindi dei criteri di delegittimazione - della potestà punitiva dello Stato. Un sistema penale, diremo infatti, è giustificato soltanto se la somma delle violenze - delitti, vendette  e punizioni arbitrarie - che esso è in grado di prevenire è superiore a quella delle violenze costituite dai delitti non pervenuti e dalle pene per essi comminate. Un calcolo di questo genere è impossibile. Si può dire però che la pena è giustificata come male minore - cioè solo se minore, ossia meno afflittivo e meno arbitrario - rispetto ad altre reazioni non giuridiche; e che più in generale il monopolio statale della potestà punitiva è tanto più giustificato quanto più bassi sono i costi del diritto penale rispetto ai costi dell'anarchia punitiva.

Questo modello normativo di giustificazione soddisfa condizioni di adeguatezza etica e di consistenza logica.

In primo luogo, finalizzando il diritto penale al solo scopo della prevenzione generale negativa - delle (informali) oltre che dei delitti - esso esclude la confusione del delitto penale con la morale che contrassegna le dottrine retributivistiche, e quelle correzionali, e quindi ne preclude l'autolegittimazione moralistica o peggio naturalistica. In secondo luogo esso risponde sia alla domanda "perché proibire ?" che alla domanda "perché punire ?", imponendo alle proibizioni e alle pene due finalità distinte e concorrenti che sono rispettivamente il massimo benessere possibile dei non devianti e il minimo malessere necessario dei devianti, entro lo scopo generale della limitazione degli arbitri e della minimizzazione della violenza nella società. Assegnando al diritto penale lo scopo prioritario di minimizzare le lesioni (o massimizzare la tutela) dei diritti dei devianti oltre a quello secondario di minimizzare le lesioni (o massimizzare la tutela) dei diritti dei non devianti, esso preclude così autogiustificazioni aprioristiche di modelli di diritto penale massimo e consente soltanto giustificazioni a posteriori di modelli di diritto penale minimo. In terzo luogo esso riconosce che la pena, per il suo carattere afflittivo e coercitivo è in ogni caso un male, che non vale ammantare con finalità filantropiche di tipo rieducativo o risocializzante e di fatto ulteriormente afflittivo. Per quanto un male, però, la pena è pur sempre giustificabile se (e solo se) è ridotta a un male minore rispetto alla vendetta o ad altre reazioni sociali, e se (e solo se) il condannato ne trae il bene di essere da essa sottratto a punizioni informali imprevedibili, incontrollate e sproporzionate. E questo, in quarto luogo, è sufficiente perché tale giustificazione non entri in conflitto con il principio etico kantiano - che poi è anche un criterio meta-etico di omogeneità e di comparabilità tra mezzi e fini - secondo cui nessuna persona può essere trattata come un mezzo per un fine che non è il suo. La pena infatti, come si è detto, è giustificata non solo ne peccetur, cioè nell'interesse di altri, ma anche ne punietur, cioè nell'interesse del reo a non subire soprusi maggiori.

Infine il nostro modello giustificativo consente una replica persuasiva, anche se sempre contingente, parziale e problematica, alle dottrine normative abolizionistiche. Se queste dottrine evidenziano i costi del diritto penale, il modello di giustificazione qui prospettato evidenzia i costi, del medesimo tipo ma più elevati, che possono provenire, non solo per la generalità ma anche per i rei, dall'anarchia punitiva conseguente all'assenza di diritto penale. Questi costi sono di due tipi, e non necessariamente si escludono tra loro: quello del libero abbandono del sistema sociale al bellum omnium e alla reazione selvaggia  e incontrollata alle offese, con inevitabile prevalenza del più forte; e quello della regolazione disciplinare della società, in grado di prevenire le offese e le reazioni alle offese con mezzi diversi e magari più efficaci delle pene ma sicuramente più costosi per le libertà di tutti.

(Stralci da Il diritto penale minimo, "Dei delitti e delle pene", anno III n.3, 1985)