A History of Violence
di David Cronenberg
La morte in famiglia.
Il nuovo film di Cronenberg è, senza mezzi termini, un centro pieno. Sapientemente diretto, ben recitato, con fotografia e locations iperrealisticamente ineccepibili, oltre che superbo nella forma, è altrettanto valido nei contenuti: una riflessione quasi ammonitoria sulla violenza, la cui esposizione chirurgicamente calibrata, da western contemporaneo, può essere interpretata come implicita condanna del forsennato, ridondante uso che della stessa se ne fa negli action movies hollywoodiani, che, propinandocela in inverosimile sovrabbondanza, prima la sterilizzano e poi la sdoganano, rendendo accettabile e sopportabile quello che in una società civile deve rimanere eticamente inaccettabile e insopportabile. Ma come le vere opere importanti, oltre ad un prima chiave di lettura, se ne possono intuire o anche immaginare altre, nascoste inconsciamente o consapevolmente mimetizzate poco importa. Noi ci arrischiamo a proporne una, per cosi dire, più psicanalitica, dove protagonista del commento è la famiglia nucleare (coppia di coniugi più 2 figli), che nel nostro mondo occidentale si dice sia in declino e che Viggo Morgensen e Maria Bello devono difendere.
Ma da quali avversari, da quali competitori? Il titolo stesso del film, le recensioni e anche qualche ammissione di Cronenberg in persona, indicherebbero la parte oscura dell'essere umano, il suo potenziale distruttivo e autodistruttivo che, inopinatamente innescato, sfascerebbe il tranquillo e idilliaco mondo perfetto delle relazioni affettive fra marito/moglie e genitori/figli. Tuttavia lo stupendo finale, con la sua reticenza, il suo silenzio, il suo pudore, ci lascia intuire o almeno sperare che è proprio la macchina da guerra che dispiega le sue capacità aggressive, metafora palesemente esposta della potenza sessuale del maschio (finalmente) adulto, a salvare il focolare domestico. Naturalmente, dopo aver colpito a morte le altre tentacolari famiglie, dentro le quali siamo cresciuti, e che non vogliono il nostro distacco e la nostra indipendenza, siano esse la famiglia mafiosa (rappresentata nella pellicola da Ed Harris e accoliti) o quella genealogica (l'ottimo William Hurt, il fratello appunto, la cui volontà di riprendersi, vivo o morto, il fuoriuscito assume connotati quasi incestuosi).
Anche il misterioso passato del protagonista, che stando a quanto ci dicono le locandine e il primo livello di narrazione, ritorna ad incombere solo dopo le "gesta eroiche" di costui, viene invece in precedenza già evocato/provocato nella prima scena di sesso domestico, quando lei propone a lui l'anacronistica ambientazione adolescenziale delle pratiche erotiche, cioè il tempo e il modo in cui tutti i cuccioli umani d'Occidente sperimentano seriamente "l'uscire di casa" definitivo. "A History of Violence", è una storia di formazione. Formazione a lungo rimandata quella del protagonista e ormai prossima per il teen ager figlio del protagonista, nelle cui mani alla fine perviene, riscoperto dalla madre e consegnato al padre, il fucile - fallo - totem tutelare della sicurezza familiare. E il sangue che scorre nel film è quello dei cordoni ombelicali che, tagliati generazione dopo generazione, garantiscono il viaggio della vita.
Una visione di Antonello Quarta