Nick Cave & The Bad Seeds
Abbattoir Blues / The Lyre Of Orpheus (2004)
Nick Cave si presenta con due dischi venduti assieme, piuttosto che con un più convenzionale doppio. La differenza può apparire peregrina, oppure una boutade dell'ufficio marketing, ma a noi interessa comunque come spunto accattivante per una riflessione. Nel catalogo del nostro non ha senso distinguere fra raccolte di singoli brani e concept album, poiché l'autore - demiurgo Nick Cave ha concepito una volta per tutte il suo universo estetico in un istante zero della storia del rock e ha poi sviluppato con cura, allevato con dedizione, difeso amorevolmente la sua intuizione originale, informando di ciò coerentemente tutta la sua produzione, l'intera sua carriera.
Ci piace pensare che i parametri musicali, le scelte stilistiche e le elaborazioni testuali proprie della sua opera, ben noti a chi ha confidenza con la sua discografia (per tutti gli altri, alcuni soggettivissimi suggerimenti: "Your Funeral, My Trial"/1986, "Henry's Dream"/1992, "Murder Ballads"/1996), non siano stati per l'artista semplici arnesi di lavoro, o prosaici ingredienti di una ricetta (benissimo riuscita, perbacco!), ma romantiche ossessioni, dolori familiari con cui si deve quotidianamente convivere, scendere a patti, assecondare, servire per poi poter essere serviti.
Una
Musa gelosa ed intransigente gli ha suggerito di artigliare il blues, di
scandagliare la Bibbia, di combinare il miele del canzoniere popolare americano
con il vetriolo delle subculture sonore che agivano rabbiose nell'underground
degli anni '70 e '80, di elevare a
dignità letteraria i sordidi e orridi topos del rock oscuro. Un miracolo della
creatività dunque, ma anche una condanna per la creatività. Ebbene,
proprio in questo sta la melanconica bellezza dei nuovi dischi di Nick Cave, di
ogni nuovo disco di Nick Cave, laddove i fantasmi estetici di sempre non vengono
scacciati, ché ormai la casa è stregata per l'eternità, piuttosto invitati al
festino della musica con un misto di rassegnazione e riconoscenza, tanto la
nuova seduta spiritica non potrà mai essere uguale a quella precedente.
L'ultima duplice evocazione ci porge ectoplasmi più gentili, spiriti meno tenebrosi delle creature primigenie, ma forse sono sempre le stesse, dopo la rinuncia ai travestimenti più truculenti, alle messinscene spaventevoli. Quelli con cui ci piacerebbe di più danzare al chiaro di luna rispondono ai nomi di "There She Goes, My Beautiful World", "Nature Boys","The Lyre Of Orpheus", "Breathless", "Supernaturally", ma tutti i brani meriterebbero una menzione, quale per un'indovinata intrusione di violino, quale per un avvolgente e suggestivo coro gospel, uno per la cura e la bellezza degli arrangiamenti, l'altro per l'azzeccata inflessione vocale piuttosto che per la raffinatezza delle rime e cosi via.
Poi, prima di accomiatarci e darci appuntamento al prossimo album, ci rendiamo infine conto di come la rinuncia alla trasformazione esplicita, al rinnovamento eclatante, piuttosto che un segno di resa, sia invece la prova di forza necessaria per portare a compimento una convincente trasfigurazione dello stesso artista, per traghettare il cupo e impervio repertorio da Vecchio Testamento delle origini verso la Buona Novella dell'attuale ispirazione, più variopinta, meno monolitica, incantevole ma non soggiogante. E l'Apocalisse? Di là a venire.