SGUARDO SUI CONTRASTANTI MODELLI SOCIALI AFRICANI ATTRAVERSO IL CINEMA
Per
quel che riguarda il cinema africano due sono i generi cinematografici più
diffusi, che aprono una finestra sulla società e la cultura africana,
perennemente in bilico tra tradizione e modernità, tra vecchio che resiste e
nuovo che avanza: il “film di villaggio” e il film di critica sociale.
IL
“FILM DI VILLAGGIO”
In
Africa il villaggio è un microcosmo più rappresentativo di una specificità
etnica di quanto lo sia la nazione, i cui confini, stabiliti per decreto,
risultano fittizi, dal momento che non si è tenuto conto di quelli naturali,
sia geografici che linguistici.
Quando
si sceglie di ambientare una pellicola all’interno di un villaggio
tradizionale, la macchina da presa, seguendo con amore i piccoli eventi o non
eventi del quotidiano, sceglie, ovviamente, di dare rilievo a dei momenti
significativi della vita del villaggio, quale per esempio, la risoluzione di
controversie ad opera del capo villaggio.
Affiora,
in questo modo, l’immagine di un’Africa “comunicratica”
[1], secondo la definizione dello scrittore maliano
Sekou Tourè, in cui il potere è in mano alla comunità dall’organizzazione
di tipo familiare. La famiglia è allargata e fortemente gerarchizzata; più
famiglie, che hanno origine comune e occupano il medesimo territorio, ereditato
dagli antenati e sfruttato in modo collettivo, formano un
clan e più clan una tribù.
Il
capo villaggio detiene più un potere di tipo costituzionale che monarchico,
visto che le sue decisioni si rimettono sempre alla volontà del Consiglio dei
capi clan. Comunque, la sua autorità è sancita dagli antenati, dei quali è
rappresentante.
Anche
le norme giuridiche che applica sono trasmesse per via orale, secondo
tradizione, dagli avi; hanno carattere di coesione e solidità, che sono la
forza del diritto consuetudinario.
L’Africa
non conosce distinzione di poteri, non stabilisce alcuna separazione tra vita
laica e religiosa, come sottolinea il poeta Senghor: <<Il merito della
filosofia africana è aver creato una società armoniosa>>. Tutte le
discipline si compenetrano e si arricchiscono a vicenda ed è difficile
stabilire dove finisca una e ne inizi un’altra, tant’è la fusione e
l’interscambio.
Basta
pensare alla figura del giurista che è, allo stesso tempo, anche indovino e taumaturgo. Infatti, presso le culture tradizionali
africane, non si pensa che la malattia abbia cause naturali, fisiologiche, ma
dipenda dalla volontà di un feticcio o
di un antenato o dall’intervento maligno di uno stregone. Così la religione
entra direttamente in gioco in queste pratiche mediche, viste sempre con
notevole sospetto dalla scienza ufficiale occidentale, perché liquidate come
meri riti magici, senza alcun fondamento razionale di veridicità. È vero che
il primo passo per curare il male è fare un sacrificio agli dei per scoprire il
motivo di questa ripercussione ed ottenere il perdono. Ma, poi, per ristabilire
l’ordine della forza biologica turbata da un trauma fisico-organico, si
ricorre ad una ricca farmacopea che si basa, soprattutto, sulle numerose
proprietà benefiche delle erbe. Questo dimostra la grande conoscenza dei
segreti della natura da parte di questi popoli, che sanno adoperarla a loro
vantaggio nel rispetto dell’equilibrio ambientale.
Un
altro rito collettivo a cui, molte volte, si assiste è quello d’iniziazione,
vissuto con grande partecipazione
dall’intera comunità.
Per
l’africano esiste la persona e le persone della persona: ognuno è composto da
più interiorità, da molteplici piani di esistenza sovrapposti. Mentre prima
dell’esistenza terrena si vive una preesistenza cosmica nel regno dell’amore
e dell’armonia, in cui nulla si muove, sulla terra ogni individuo esce dalla
staticità, per entrare in una serie di dinamiche costanti, che fanno parte del
suo processo evolutivo. Questo culmina nella piena realizzazione della persona,
nel momento in cui viene dotata della forza morale e mentale. Tale percorso è
lungo e graduale. Dapprima
l’educazione del bambino spetta alla famiglia, ai genitori, in un secondo
momento, quando questi raggiunge l’adolescenza, se ne fa carico tutta la
comunità, in particolar modo gli anziani del villaggio. Il fanciullo, dopo un
periodo di noviziato, di apprendistato, diventa uomo, una volta superata una
prova di forza, come potrebbe essere quella della circoncisione, per esempio.
IL
FILM
DI CRITICA SOCIALE
Nel
“cinema di villaggio” si mostrano, con amore e una punta di
nostalgia, scene di vita, che vanno a formare un quadro più da ammirare che da
meditare. Invece, nei film di critica sociale, si accusa, quasi con rabbia, l’intero
sistema socio-politico africano, analizzato e scomposto nelle sue ombre e nelle
sue distorsioni, che si fanno, il più delle volte, risalire al famigerato
binomio tradizione/modernità, ancora irrisolto e fautore di ulteriori visioni
contrastanti: tra Africa ed Europa, tra vecchi e giovani, tra donna tradizionale
e donna occidentale.
Il
fine è quello di aprire gli occhi sia di chi si rintana nel guscio protettivo
del suo mondo tradizionale, sia di chi, con leggerezza, sconsideratezza, rinnega
le proprie radici per inseguire il mito illusorio dell’occidentalizzazione a
tutti i costi. Questi registi si fanno, così, carico di un impegno
educativo-didattico, che non implica esclusivamente l’uso dell’invettiva, ma
anche dell’ironia.
Perché
con l’ironia la denuncia può essere altrettanto mordace, pungente. In Africa
lo humour è un grande alleato per combattere la tragicità connaturata con
l’esistenza. La consapevolezza del dolore è parte integrante di questa
cultura insieme non tanto alla rassegnazione, quanto alla tolleranza del dolore ribaltata, spesso, sotto forma di autoironia, di gioco tragicomico.
Gioco a cui partecipano attivamente anche gli spettatori di un film, che non
possono fare a meno di ridere fragorosamente, alzarsi in piedi e commentare ad
alta voce, se si trovano di fronte ad una pellicola divertente.
Più
che altrove, in Africa, anche il cinema è un rito collettivo. Di solito il film
è una sorta di spettacolo privato per ogni persona del pubblico, che vive le
emozioni suscitategli in modo intimo e personale. Per l’africano che assiste
ad una proiezione, invece, è impossibile non comunicare quello che sta vivendo
in quel momento a chi lo circonda, partecipando allo spettacolo, offrendo, a sua
volta, una mini-rappresentazione.
Tornando
allo specifico dei film di critica sociale, si può notare che uno dei costumi
più discussi, all’interno della società senegalese, e, quindi, più
bersagliati al cinema, è quello della poligamia, a cui è strettamente legata
la condizione della donna
[2].
Infatti,
in una realtà marcatamente maschilista, poligamia è sinonimo di poliginia,
essendo il solo uomo ad arrogarsi il privilegio di sposarsi
più volte contemporaneamente. È un fenomeno che interessa dal 30 al 50%
degli uomini e di conseguenza, non per scelta, il 60% delle donne.
Quest’usanza
non è stata un apporto della religione islamica, faceva già parte della
cultura locale prima dell'islamizzazione; l'islam non l’ha mai incentivata,
ma, semplicemente, tollerata, perché ben radicata nel tessuto sociale ponendo
un limite al numero massimo di mogli: quattro.
Il
“possedere” più di una moglie è un simbolo di prestigio politico-sociale,
è conveniente economicamente, specialmente se si vive di un’agricoltura di
sussistenza non molto meccanizzata, a cui fa comodo qualche braccia in più che
lavora; è una garanzia per la vecchiaia del marito, che sarà circondato da
molta prole; è una soluzione per i periodi post gravidanza e, quindi, di
astinenza sessuale. Bisogna, solamente, potersi permettere di mantenere una
famiglia numerosa. Inoltre, è considerata un’azione a favore, a tutela della
donna, per la quale il matrimonio, in modo particolare se rimasta vedova, sembra
essere l’unica soluzione per sottrarla ad una vita senza scopo, quasi
immorale, con il rischio di cadere nella prostituzione.
È
un’usanza ben codificata, che prevede turni settimanali per ogni moglie per le
faccende domestiche e per condividere il talamo nuziale, che si regge
sull’imparzialità del marito verso tutte le mogli, che hanno uguali diritti e
doveri. Se si abita in zone rurali, solitamente si conduce un’esistenza
comune; in città, dove la poligamia non è meno diffusa, si preferiscono
abitazioni separate per evitare i conflitti, che sono frequenti a causa o della
maggior considerazione verso la prima moglie, più anziana e saggia, o delle
maggiori attenzioni per l’ultima sposa, la più giovane, o degli inevitabili
dissapori legati alla convivenza, o della generale insoddisfazione sessuale
delle donne.
La
poligamia richiama immediatamente alla mente la diffusione di matrimoni
combinati. È raro che un film africano dia largo spazio ad una storia
d’amore, giacché l’amore non è al primo posto nelle clausole matrimoniali,
assolutamente scalzato dall’interesse economico. La donna è ancora,
purtroppo, vista come un bene che può rendere alla propria famiglia se stipula
un matrimonio vantaggioso. In Africa, infatti, senza dote è improbabile
sposarsi.
Nella
cultura tradizionale, non vi è la consapevolezza di compiere un torto, un
sopruso nei confronti della donna: semplicemente il bene della famiglia-comunità
viene prima di tutto e, se è un bene per la collettività, lo è anche per lei.
La donna non manca, a parere della maggior parte degli africani, specialmente di
generazioni passate, di considerazione, anzi, è ritenuta, all’interno della
famiglia allargata, il perno di ogni mini nucleo familiare, perché
garantisce la continuazione della famiglia, mettendo al mondo dei figli e
perché, senza di lei, il marito non potrebbe svolgere le attività che gli sono
proprie.
Per
anni, la donna africana non ha osato fiatare, ribellarsi a questa rete di
inconsapevoli soprusi, perché rassegnata a credere che, se le cose andavano da
sempre in questo modo, era giusto che così fosse. D’altronde, l’accesso
all’istruzione, l’unico mezzo per acquisire consapevolezza ed autonomia di
giudizio, era, almeno fino a non molti anni fa, negato alle donne, semplicemente
depositarie del buon senso, derivato loro dalla saggezza popolare.
Ora,
al cinema, però, comincia ad emergere una figura di donna maggiormente libera
ed emancipata, che abbandona l’abito tradizionale, il boubou,
e sceglie l’istruzione, non per semplice anticonformismo, ma perché vuole
essere padrona delle sue scelte, come dei suoi sentimenti e del suo corpo,
riguardo, per esempio, a pratiche quali l'infibulazione. Si fanno, a poco a
poco, strada delle giovani che trovano il coraggio di ribellarsi ai vincoli
della tradizione, che, se imposti senza essere condivisi, possono risultare
pesanti catene da spezzare.
Un
altro tema proposto spesso al cinema è il viaggio dalla campagna verso la città,
o, addirittura, in Francia, compiuto da numerosissimi giovani in cerca di un avvenire
migliore. Il migrare in una città
africana, nell’immaginario di chi vive in un villaggio, è perfettamente
equiparabile al trasferirsi in una metropoli europea. Del resto, le città in
Africa sono state, per lo più, costruite da europei, sul modello delle capitali europee, senza rispettare la fisionomia
tipicamente africana, perciò sentite poco appartenenti a sé dall’africano.
Per
le vecchie generazioni, poi, sono considerate un luogo di perdizione, in cui
giovani uomini (è meno diffuso il caso di una donna che lascia la sua casa e la
sua famiglia per immigrare) si recano dopo aver rinnegato sé, la loro storia,
il senso di appartenenza ad una determinata terra e reciso ogni legame affettivo.
Questo
tipo di viaggio e di esperienza che ne deriva sembra essere un percorso
obbligato. Si presenta come un secondo momento d’iniziazione, una seconda
prova di virilità e, insieme, di conoscenza di sé, delle proprie capacità e
dei propri limiti.
La
città è descritta con crudezza, spietatezza, se ne mettono in luce i netti
contrasti tra i quartieri benestanti e occidentalizzati, nell’aspetto e nella
sostanza, e quelli periferici, coperti di baraccopoli, dove, a stento, la gente
lotta per preservare la propria dignità. La città tenta ed ammalia il nuovo
arrivato, che sembra, al principio, rilevare solo il meglio del vivere
occidentale, tecnologia e vita raffinata, e il peggio della realtà africana,
miseria e rassegnazione.
Diventa
il luogo dello sbandamento e dello snaturamento temporaneo: bisogna
perdere per breve tempo la propria identità per riscoprirla rinnovata e
rafforzata.
È precisamente di un’identità propria che gli africani sono da anni, almeno dall’epoca dell’indipendenza, in cerca, dopo aver subito per secoli un processo di assimilazione che ne ha impedito uno sviluppo autonomo. Un cammino difficile, appena iniziato, che speriamo dia risultati al più presto.
CINZIA QUADRATI