HANA-BI
di Takeshi Kitano
Quando
fu presentato alla Mostra del cinema di Venezia non si parlava ancora del
nostrano “Fuochi d’artificio”, né delle 630 sale nelle quali sarebbe
uscito, né dei miliardi che avrebbe guadagnato nel primo week-end di
programmazione. Si parlava come del sicuro vincitore dell’omonimo nipponico e
non s’immaginava che, per non intralciare la strada a Pieraccioni (come se
fosse possibile!), sarebbe diventato “Hana-Bi - Fiori di fuoco”.
Indipendentemente
dal valore degli altri film in concorso, quello di Kitano si distingueva per
tensione narrativa, per forte senso del tragico che si manifesta in forma di
violenza (mai fine a se stessa, ma sempre correlativa di un dramma), e per
nitidezza d’immagine, sia che venga inquadrato un volto, un paesaggio marino,
un dipinto.
Il
film si apre con alcune scene isolate, che potrebbero quasi appartenere a storie
diverse. In realtà, anche se non viene usato alcun espediente cinematografico
tipico del flashback, come lo sfumato, o il passaggio dal colore al bianco e
nero, o una grana differente della pellicola, quei frammenti di sequenza sono
frammenti del passato di Ki-Shi San, che si stagliano violentemente davanti ai
nostri (suoi) occhi. Ki-Shi-San è un poliziotto di poche parole, dall’aspetto
impenetrabile, dallo sguardo fisso, perso nel vuoto, come se incapace di
staccarsi da quelle terribili immagini e di vedere altro. Il flashback più
ricorrente e drammatico mostra la morte di un collega in un’operazione di
polizia, alla quale prendeva parte anche lui. Visivamente è la scena di maggior
impatto. Ma nella memoria di Ki-Shi-San c’è un’altra morte, quella della figlia,
che non ci viene mostrata, ma raccontata e non dal padre, ma da un collega. C’è
grande pudore nel film attorno all’infanzia.
Tenero
e pudico, nonostante le poche parole scambiate, è anche il rapporto con la
moglie, condannata a morire dal cancro. Tra i due sembra aleggiare una serie di
non detti, un triste imbarazzo, che sfuma a poco a poco, dopo la rapina alla
banca da parte di Ki-Shi-San per sciogliere il debito con la Yakuza e poter partire
liberamente con la moglie per un viaggio senza ritorno. Questo è costruito come
una sequenza di buffi episodi, di aggraziati sketch, che portano sempre più
verso la distensione. Lo testimoniano le espressioni più rilassate di Ki-Shi-San e le
parole della donna: “Scusa (perché gli ha dato una figlia che è morta, perché
lei stessa sta morendo?)....ti ringrazio” (per l’amore, perché le ha
permesso di vedere la neve-infinito e tornare al mare?).
Forse,
lo stesso mare che è costretto a guardare per ore un altro collega di Ki-Shi-San,
immobilizzato sulla sedia a rotelle dopo una sparatoria, in cui era al posto
di Ki-Shi-San,
in vista alla moglie in ospedale. A differenza di Ki-Shi-San, che si rifiuta di guardare
oltre e sceglie il doppio suicidio, questi continua a guardare e trasferisce ciò
che vede in infantili disegni naif (opera di Kitano). Questi disegni, più o
meno a metà del film, acquistano sempre più spazio, guadagnandosi delle intere
inquadrature, come fossero cartelli che segnano i capitoli del film, in un
crescendo semantico. Si parte dal fuoco d’artificio, sì sparo, ma soprattutto
bagliori di luce, offerta alla donna dal marito e che lei cercherà ancora con
lo sguardo sentendo il rumore di uno scoppio, fino ad arrivare al disegno
“suicidio”, preludio dei due spari mortali. Dopo gli spari, solo uditi, la
penultima inquadratura è per una bambina e il suo aquilone, con i quali la
coppia aveva giocato un attimo prima. Lo sguardo della bambina è incredulo, non
capisce il perché di quel gesto, in fondo lei ha sempre il suo gioco, infatti
continua a stringere in mano l’aquilone, quindi, la possibilità di gioire,
come il collega paralitico continuerà a guardare e a disegnare il mare
dell’ultima inquadratura.
CINZIA QUADRATI