IL GRANDE LEBOWSKI

di Joel ed Ethan Coen

 

Come in un cartone o fumetto western, uno di quei cespugli rotanti rotola, rotola in una qualsiasi deserta e ventosa valley, finché precipita in una moderna città americana. La voce off, quasi sicuramente di un vecchio cow-boy, che introduce la vicenda, si eclissa con il cespuglio, aprendo il campo al “grande Lebowski”, un Jeff Bridges ingrassato, con barba e capelli incolti, che veste bermuda e sandali: l’emblema dell’indolenza.

Fino al momento in cui inizia la travolgente avventura, in cui per caso, per una banale omonimia, si trova coinvolto, l’unica attività di questo nullafacente per scelta sembra essere il bowling. Al bowling incontra gli amici: un John Goodman straripante fisicamente e verbalmente, veterano invasato del Vietnam, per il quale ogni pretesto è buono per perorare la causa dei reduci e uno Steve Buscemi insolitamente mite, al limite dell’imbecillità.

La pista da bowling, insistentemente inquadrata da più prospettive, scandisce i tempi della pazzesca storia capitata a Bridges, così complicata, abitata da personaggi così inverosimili, che non sembra vera (d’altronde l’incipit del film lo lasciava immaginare). E’ al bowling che gli episodi successivi prendono forma nei piani di Goodman. Ma quelle avventure non nascondono un desiderio d’evasione. Tutt’altro. Durante un’allucinazione da marijuana, Bridges immagina, infatti, di librarsi in aria con una palla da bowling, poi di precipitare con essa sulla familiare pista e, da lei fagocitato, roteare fino alla buca.

Alla fine quelle vicende da incubo si concludono senza una chiara soluzione e si torna bruscamente alla realtà con un funerale. Per Goodman è l’ennesima occasione di uno sfogo sul Vietnam, per Bridges il momento di dire basta con il grottesco e di dare una fine alla storia.

Si ritorna finalmente al bowling, al sospirato torneo contro uno sfavillante John Turturro in viola, che non si sa come finirà o se finirà.

 

CINZIA QUADRATI