In questa stagione cinematografica che, pur con tutta la buona volontà, è arduo definire memorabile, due pellicole sono da considerarsi significative, anzi simboleggiano in pieno l’annata nel bene e nel male.
Io non ho paura rappresenta nel cinema di Salvatores una svolta, che il cinema italiano dovrebbe prendere ad esempio per recuperare energia e sprint.
Abbandonati gli amici in fuga, le rimpatriate ebbre, il sociale e il fantasociale, le storie parallele in split screen sull’isola della trasgressione prefabbricata, l’autore milanese parte dalla buona letteratura contemporanea (il prode Niccolò Ammaniti) per regalarci (si fa pur sempre per dire) cinema allo stato puro.
Cosa vorrà dire quest’affermazione? Un luogo comune della critica cinefila, un cliché logoro da intellettuali della sala di proiezione?
Non direi proprio; il vecchio (ma non troppo) Gabriele non esita a utilizzare la macchina da presa in inquadrature funamboliche e spericolate, a sfruttare appieno la splendida luce e i colori abbaglianti dell’estate lucana e porta tutto a un livello più basso, non nella qualità della produzione, ma nell’ avvicinarsi alla dimensione fisica dell’infanzia.
Le terre dorate della Lucania anni '70 sono un palcoscenico immenso, in cui rappresentare sogni puerili minacciati da incubi adulti.
L’eroe inconsapevole è un ragazzino di un paesello rurale, figlio di un camionista, dedito insieme ai compagni di giochi a sfide spericolate tra i campi, prove di forza e coraggio da superare per non incappare nei castighi ideati dal capobranco.
Un giorno luminoso, uscendo dal gregge, scopre in un antro ricavato nel terreno adiacente una fattoria un ragazzo come lui, tenuto prigioniero in condizioni disumane.
Si presterà a rifocillarlo e scoprirà la banda che ha organizzato il rapimento, in cui è coinvolto il suo stesso padre.
Un crimine aberrante, che gli adulti vivono da irresponsabili criminali da strapazzo, mentre il senso di responsabilità e la dimensione etica dell’esistenza vengono salvati dai bambini, in un rovesciamento di prospettiva non banale.
Se questa pellicola italiana prende per mano lo spettatore con garbo e lo conduce nei territori del buon cinema, Matrix Reloaded sembra fare l’esatto contrario.
Nell’inevitabile seguito di una prima opera apprezzabile gli umani continuano la strenua lotta contro le macchine e i loro sofisticatissimi software, in attesa del giorno del giudizio e del compimento della profezia.
Lo spettatore appassionato di azione al fulmicotone e di effetti speciali caramboleschi non resta deluso; e alcuni passaggi sono degni di nota: il rave orgiastico nella notte prima della grande battaglia per la sopravvivenza, il merovingio che ritiene il francese una lingua formidabile per insultare il prossimo e che sguinzaglia due scagnozzi biondi rasta, la splendida Ducati nera nell’immancabile inseguimento da film poliziesco...
Ma anche il pubblico votato all’umorismo involontario rimane incantato, grazie ai personaggi addobbati in pelle nera e ray ban anche per andare a dormire, alle frasi d’amore accompagnate da sguardi poco convinti, alle imprese da ammazzasette.
In più c’è il cattivo del primo episodio, spodestato da un nuovo superperfido, che lancia il suo grido disperato contro chi lo aveva sconfitto e gli aveva rovinato la carriera.
Keanu Reeves è quasi ammirabile per come riesce a rimanere inespressivo e algido, mentre Monica Bellucci è un vero talento naturale nella sua assoluta incapacità di abbozzare un recitato.
La terza puntata della saghetta incombe e rende questo episodio solo un inutile trastullo, un video-game che garantisce gli incassi ma ben presto stanca.
Solo Salvatores ci potrà salvare, se proseguirà con decisione nel suo nuovo corso e aiuterà il cinema a non andare in decomposizione.
Per ora è solo morto.
Evviva il cinema!