MOULIN ROUGE
di Baz Lurhmann
Tra
Mario Merola e Disneyland, la quotata pellicola di Baz Lurhmann non delude di
certo l’occhio e lo stomaco. Ma crea problemi al fegato e lascia a bocca
asciutta cuore e cervello.
Non
staremo qui a discutere la bravura della divina Kidman e il serratissimo
montaggio condito da succulenti effetti speciali, ma puntare tutto sugli
stereotipi è un segno inconfutabile di scarso coraggio.
L’operazione
commerciale è andata in porto, il pubblico esce appagato e diffonde un efficace
passaparola, la critica si arrende senza combattere e si unisce al consenso.
Ma
è meglio dire ciò che forse molti pensano ma non oserebbero mai
pronunciare: il film ammassa frenetico una folla di situazioni tipiche e cliché,
cibo di cui certo cinema americano ha sempre amato ingozzarsi, e la melassa
melodrammatica avvolge nelle sue spire velenose i malcapitati personaggi.
Tra
essi il protagonista, impersonato da un irriconoscibile Ewan McGregor, che
elargisce versi da baci Perugina e i compagni bohémien, che si agitano scomposti e
ruffianeschi in cerca del loro momento di gloria.
Se
Toulouse Lautrec è una sorta di decerebrato e l’impresario cattivo è
incapace d’amare davvero, allora sicuramente l’argentino sarà un ballerino
passionale di tango.
Nulla
ci viene risparmiato in questo vorticoso caleidoscopio di colori e suoni,
neanche le canzoni che sono la riproposta di recenti motivi da hit parade
secondo riferimenti tematici alle scene e alle emozioni della vicenda:
operazione questa che si trascina per tutto il film diventando, a lungo andare,
quasi irritante e facendo rimpiangere le trascinanti musiche originali
dell’epoca.
Epoca che viene rievocata solo nell’agitarsi delle gonne delle ballerine di can can, in una Parigi virtuale fredda e insignificante.
Il
film appare un’occasione mancata di ricreare un’epoca interessante e
viscerale, ma anche di rievocarla in chiave moderna.
Rimane
il successo al botteghino, che si conta in fruscianti verdoni, e il neodivismo,
che ne esce esaltato; in fondo (vogliamo essere realisti) il cinema, sin dai
suoi albori, è anche questo.
Il critico, però, a questo punto si domanda se almeno si poteva evitare di incensarlo come un sensazionale innovativo capolavoro; meglio volare bassi e non farsi ubriacare dall’orgia di immagini e ballerine, come capitava durante la ruggente belle époque (quella vera) ai gaudenti signori e ai giovanotti eccitati nei fumosi tabarin.